FILIBERTO E MATTIA SUL GRAN PARADISO. I due nostri giovani Soci Filiberto Ciaglia e Mattia Scagliarini per la prima volta su un “4000”.

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FILIBERTO E MATTIA SUL GRAN PARADISO. I due nostri giovani Soci Filiberto Ciaglia e Mattia Scagliarini per la prima volta su un “4000”.

E’ indispensabile iniziare con un ringraziamento al blog, per avermi chiesto di scrivere a proposito della salita sul Gran Paradiso. Non parlerò dell’attrezzatura, dell’abbigliamento o di tutti quei fattori senza dubbio interessanti, ma meno entusiasmanti. Parlerò dei luoghi, degli scenari che hanno caratterizzato i due giorni di ascesa su uno dei tetti d’Europa. Io e Mattia Scagliarini, compagno di cordata e d’allenamento, ci siamo affiancati all’istruttore di sci nordico Ernesto Bethaz, “Netto” per gli amici. Quella che segue è la storia di un’ascensione bella e stressante, lunga e surreale. Il 9 settembre siamo partiti da Pont Valsavaranche, punto di partenza per raggiungere il rifugio Vittorio Emanuele a 2732 m. La salita al rifugio è stata agevole, con uno zig zag continuo in un sentiero largo non a caso: in effetti, quel tracciato fu pensato per consentire al re Vittorio Emanuele di recarsi a caccia nel cuore del parco, a cavallo. Intorno avevamo un’infinità di vette oltre i 3000 m, da cui scendono cascate provenienti dai ghiacciai esposti a nord, tutti in fase di riduzione da molti anni a questa parte. In un paio d’ore siamo arrivati al rifugio, una struttura a dir poco eccezionale, tra i fiori all’ occhiello dell’intero arco alpino. Ci sono posti letto per più di cento persone, un numero che viene raggiunto in genere tra la fine di luglio e il giorno di Ferragosto. Molti di coloro che soggiornano terminano il loro tour proprio al rifugio, per poi reincamminarsi verso il fondovalle qualche giorno dopo. Altri, invece, partono per le vette circostanti più importanti, come il Ciarforon (3875 m), che è tra l’altro la cima più suggestiva e vicina al Vittorio Emanuele, o, per l’appunto, il Gran Paradiso (4061 m). Dentro al rifugio non c’è campo per telefonare, né una rete wifi per poter comunicare: la scritta “No wifi: parlate tra di voi” è emblematica e condivisibile, in un contesto così ad impatto con gruppi provenienti da ogni luogo. Eravamo una cinquantina di persone, pochi italiani, per lo più francesi e tedeschi. La sera si deve tassativamente abbassare il tono della voce a partire dalle 22:00, ma alle 22:00, nella sala grande, che è quella dove si servono i pasti, non c’era già più nessuno. Dopo la cena, servita dalle 19:00, guide, alpinisti ed escursionisti vanno a letto presto, la colazione è in programma alle 4:00. Il meteo è stato incerto per tutta la settimana, lasciandoci addosso una dose d’ansia in più quando, poco prima di salire in cuccetta per andare a dormire, fuori il cielo si è coperto quasi per intero. Addormentarsi nel silenzio assoluto è impossibile, riecheggia sia da ovest che da est il rumore costante delle cascate, cui si aggiunge ogni tanto quello di qualche masso staccatosi dalle pareti proprio a causa dell’instabilità dei ghiacci.

E, come accade sempre nelle notti che precedono i giorni tanto attesi, è quasi impossibile poter ambire alla famosa formula del “tutta una tirata”, si dorme sì e no, con la testa altrove.

Sveglia prima dell’alba. Dalla finestra della cuccetta, per nostra fortuna, lo scenario è sereno ed incredibile: i ghiacciai del Ciarforon e delle cime verso ovest sono illuminati dalla luna piena, il fondovalle non è ancora visibile, le sagome delle vette verso nord si fanno sempre più nitide, giù c’è un vociare di gente che sta per partire. Tè caldo, pane e nutella e si parte. E’ la salita finale.

La si può dividere in tre momenti, volendo tripartirla per distinguere i diversi scenari: la pietraia, il versante nord del ghiacciaio e il tratto finale. Il primo tratto su roccia si conclude all’altezza di 3300 m. A pochi minuti dall’inizio del cammino ci siamo imbattuti in un gruppo di stambecchi alpini: se volessimo confrontarli con l’animale appenninico più simile, ovvero il camoscio, la differenza sta soprattutto nella stazza. Lo stambecco alpino è massiccio, supera i 100 chili di peso, ha un paio di corna di gran lunga più lunghe e robuste, il pelo è decisamente più scuro. Mi ha colpito il fatto che siano rimasti a pochissimi metri da noi senza indietreggiare mai, segno di quanto siano assuefatti all’uomo, che incontrano molto più di frequente d’inverno, quando l’abbassamento della neve li spinge a cercare il cibo a fondovalle. L’alba, nel frattempo, dissolve la luce delle poche stelle luminose ancora visibili, rendendo nitide le vette verso la Francia, a settentrione. Spunta il Monte Bianco con tutta la sua catena, un insieme di montagne immenso che si sviluppa in direzione orientale. Un sottile strato di ghiaccio sulle rocce, soprattutto dai 3000 m in su, ha reso l’ultima fase del primo tratto ostica soprattutto per il rischio di scivolamento, un rischio di poco conto visto che non v’erano punti esposti. A 3300 m dunque, eccolo, maestoso: è il ghiacciaio del Gran Paradiso. Un immenso e profondo strato di ghiaccio adagiato sulla roccia alpina, da lontano erano ben visibili i pochi gruppi in salita tra i crepacci, tutti rigorosamente legati.

Una volta equipaggiati, inizia questo secondo tratto straordinario. Per chi, come noi, possiede un’esperienza esclusivamente appenninica, l’impatto con un ghiacciaio alpino diviene una novità assoluta. L’aspetto che più ci ha colpiti è senz’altro quello dei crepacci, e non parlo di semplici fratture. In alcuni punti, abbiamo attraversato dei ponti di ghiaccio (con uno spessore di qualche metro), in bilico su crepacci dal fondo non visibile, forse 70 80 metri. Il ghiaccio al loro interno passava dal bianco al turchese, sino al blu scuro che diventa buio glaciale assoluto, non il punto migliore su cui tenere incollato lo sguardo per più di cinque secondi. Lo zigzagare attorno ai crepacci, con pendenze più o meno impegnative, è proseguito, svelando mano a mano le altre vette in lontananza, fino a circa 3700 metri.

Da lì inizia il tratto finale, il più emozionante e impegnativo dell’intera salita. La crema solare è stata indispensabile, come lo sono gli occhiali da sole. Avevo letto del riverbero notevole di quelle altezze, dell’intensità della luce solare, ma la realtà dei fatti è sempre un’altra storia. Nella prima fase dell’ultimo tratto, la salita su ghiacciaio costeggia la cosiddetta “Schiena d’Asino”, vale a dire tre speroni di roccia quasi in verticale, che precedono quello finale su cui è posizionata la madonnina, nel punto più alto del massiccio. La pendenza aumentava progressivamente, finché il tracciato su ghiaccio si è interrotto poco prima del sottovetta. Da lì, per una ventina di metri prima dell’anticima, siamo saliti su una parete sui 75° circa di pendenza, in uno dei tratti più difficili di tutta la salita. Qualche attimo di incertezza, dovuto soprattutto ad un gruppo sopra di noi nel quale qualcuno dei membri ha avuto serie difficoltà sul ghiaccio, ha rallentato di poco la salita, infondendoci tensione in abbondanza, che andava ad aggiungersi al senso di surreale dilagante, quello tipico delle emozioni forti. Perché era quasi fatta. Giunti all’anticima, siamo già circa a 4000 m. Da lì, poggiate le piccozze, è iniziato l’ultimo tratto interamente su roccia, il più impegnativo soprattutto da un punto di vista psicologico: gli ultimissimi metri prima della madonnina, infatti, sono caratterizzati da un’esposizione assoluta sullo strapiombo del versante sud. Li si affronta assicurati, cercando di non farsi suggestionare da un panorama tanto indescrivibile quanto destabilizzante (si tratta di un passaggio sconsigliato a chi soffre di vertigini, nella maniera più assoluta). Qualche passo ancora ed eccoci.

In cima.

Verso nord, il Monte Bianco e tutta la catena verso est, un’infinità di cime verso la Francia. A est la Grivola e le vette più lontane, a sud l’altro versante del massiccio e in lontananza il Brighton e il Cervino, coperti dalle nuvole. Volevo poter rendermi conto di dove fossi in quel momento, non ci sono riuscito. Ed è tipico di ogni grande emozione, quella di poterla analizzare solo quando è già passata, a mente riposata, “tornati sulla terra”.

Ritengo, però, che le brevi riflessioni scritte da entrambi, a poche ore dal termine della salita, già ad Aosta, sia il modo migliore per rendere quasi tangibile le sensazioni di quei pochi minuti.

“4061 m. È surreale. Grazie al meteo, che ci ha concesso un cielo pazzesco. Grazie ai gestori del rifugio, di una cortesia introvabile. Grazie al CAI Avezzano, che mi ha fatto crescere e continuerà a farmi crescere. E infine grazie a mio padre, che da quella prima lontanissima salita a 1500 metri, luglio del 2004, mi ha col tempo trasmesso un regalo non misurabile, bello il doppio perché condiviso. L’avventura è stata dura, gli ambienti estranei, i rischi non trascurabili, il traguardo immenso. Non trovo le parole.
So solo che è possibile sentirsi Altrove, che tra vent’anni e chissà quante storie mi ricapiterà questo scatto tra le mani.. e ricorderò di quando sul punto più alto del Gran Paradiso ho sentito il tempo fermarsi, mentre con gli occhi spaziavo sulle nuvole per la parte di mondo più grande che abbia mai osservato.”

(Filiberto)

 

“Spesso le persone trovano la loro tranquillità solo nei momenti in cui riescono a dimenticare e a distaccarsi da tutto il resto.
Io questa mia prima grande vetta,invece,la voglio dedicare proprio al ricordo.
A tutto ciò che in questo breve lasso di vita mi ha forgiato.
A tutte le emozioni,le ansie,le gioie,le angosce,le ferite,la fortuna,le chance,all’amore,gli amici,i parenti,i luoghi,gli oggetti,il bene ed il male che in qualche modo mi hanno cresciuto,mi hanno influenzato,che mi hanno dato la possibilità di diventare ciò che sono,donato la forza per poter accettare l’inevitabile e le capacità per poter cambiare ciò che può essere cambiato.”

(Mattia)

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